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stichezza rustica e diffidente: giacché al goffo, reveren-
ziale silenzio del Demetrio, il Leonida rispondeva con
una capricciosa, ma non tracotante, cautela, un calore
anonimo, subito spento da brusche reticenze, e riacceso
da estri ilari e dispettosi.
A questo modo Demetrio dipingeva le maniere di
quel suo santaccio tanfoso e lunatico: parlata lenta, di
chi tema di farsi strappare di bocca una parola compro-
mettente; ad una domanda, la piú innocente, non dava
subito risposta: ma ruotava gli occhi di animale scaltro e
stupido, ti fissava in tralice, alzava un poco il labbro su-
periore, come per ipotetico azzannamento, e risponde-
va, infine, in modo ambiguo, insoddisfacente, come chi
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non abbia capito, ma non voglia farsi scoprire. E vera-
mente, aggiungeva Demetrio, era costui un povero idio-
ta, ma non privo di una greve grazia, per cui molto gli si
perdonava. Demetrio si industriava a spiegare in che
consistesse quella grazia: un modo di ridere sciocco ma
non fosco; un riso, precisava, che in qualche modo egli
dava al suo interlocutore; e soprattutto una disposizione
ad ascoltare, senza capire, ma con una intensità fittizia,
che bisognava presumere si alimentasse di una certa ru-
vida simpatia.
Brevemente toccò Demetrio quegli incontri e collo-
qui: come Leonida non avesse riguardo a invadergli il
sonno, ad apparire nelle latrine, ad entrare fracassone
nelle aule delle lezioni, a berciare, a ciabattare tra i ban-
chi, inavvertito a tutti fuorché a lui, con una sorta di ri-
balda ebbrezza villana. Ahimè: come era venuto, Leoni-
da se ne andò. Precedettero il congedo bizze, bizzarie,
estrosità malumorose, che Demetrio riguardò con taci-
turno orrore. Una sera infine, quando già i seminaristi
s erano collocati nelle bare dei lettucci, Leonida fe spal-
lucce, bofonchiò qualcosa con una smorfia incompren-
sibile forse «grazie», o «schifoso» o «vattene» o «che
ci posso fare?» o «iddiotimaledica» o «mio diletto» o
«figlio della merda», prese di petto la vetrata del dormi-
torio, la mandò in frantumi, e se ne andò.
Nella notte fredda e ventosa, Demetrio meditò a lun-
go, spalancati gli occhi miopi dopo che si fu quietato il
traffico dei vigilanti e dei seminaristi attorno alla vetrata
in frantumi. Che il Leonida non sarebbe mai piú torna-
to, egli tenne per certo, fin da allora; ed anzi sempre ave-
va saputo che quell impari sodalizio non era per durare
a lungo. E tuttavia si domandava, il disciplinato semina-
rista: perché il santo era sceso fino a lui? Perché aveva
indugiato accanto a lui mortale, quel dappoco ma pur
sempre aureolato? E perché se ne era andato? E quale
senso avrebbero dato alla sua vita quella enigmatica in-
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Giorgio Manganelli - Hilarotragoedia
cursione, quella oscurissima dipartita? Demetrio non
aveva mai pregato le potenze del cielo di restituirgli
quell amico improbabile e oltraggioso. E tuttavia aveva
continuato a chiedersi, senza ira, ma con ostinata deso-
lazione: perché mai egli era sceso fino a lui? Demetrio
aveva sempre sospettato che una ottusa angoscia oppri-
messe quel cuore di bucefalo. Coltivando, come accade
agli amanti derelitti, una puntigliosa filologia dell ama-
to, giustapponendo i sommessi e dubbi accenni delle sa-
cre cronache, e rammemorando frasi, parole smozzicate,
sospiri, e perfino imprecazioni, contratti sagrati, lamen-
tazioni ignobili e non di rado lacrimose, aveva creduto
di poter ricostruire la seguente storia:
In vita, questo Leonida aveva posto devozione e amo-
re in un non nominato eremita, uomo miracolante e fa-
condo, cui aveva accennato sovente, con misto di vene-
razione e rancore; costui Demetrio congetturava fosse il
beato Leonzio, di cui le sacre favole fanno appena men-
zione, tra una congerie di santi smessi e ammucchiati nel
tarlato canterano della storia ecclesiastica. Pare che co-
stui avesse concepito un indulgente affetto per quel ru-
besto badalone, e gli insegnasse quel poco che poi si ra-
dicò nella sua povera testa: far miracoletti, dire battute
edificanti, muovere le mani in quei gesti che intenerisco-
no le folle, e via discorrendo. Leonida era allora un poco
meno rustico, e di qualche succo mentale; e s era impa-
rato quelle cosette con riconoscenza. Morto il Leonzio,
e esaltato a condizione di beato, per un paio d anni Leo-
nida ne aveva ricevuto visite non infrequenti: «Fa que-
sto, non far quello, mio buon figliolo», come si usa. E
cosí andarono le cose, che alla fine quel suo incondito
cervello cominciò a pericolare; quell aureolato che gli
veniva ad indorare di paillettes soprannaturali la tana
grommosa e fetida, che galleggiava a mezz aria, con i
suoi attuzzi e il vocino fintamente senile, gli turbò e ob-
nubilò la mente; si sentí in aria di diva, di prediletto dei
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potenti; certo combinò qualche clamorosa, anche se in-
nocente, goffaggine; in conclusione, Leonzio finí per
schifare Leonida: e alla fine sparí. Il poveruomo un poco
attese, poi cominciò ad avvilirsi; il cruccio si fe malinco-
nia, poi rancore, e infine odio per quella sua deserta vi-
ta; e forse egli s avvide della propria pochezza, e cadde
in nausea di se medesimo. Prese a vagare pei boschi, di-
grignando mute lamentazioni; infine, affatto dementato,
incapace di nutrirsi, fiaccato e affranto, al primo ince-
spicone in sasso o radice era rotolato a terra, e lí era gia-
ciuto, senza aver piú animo o orgoglio di muoversi; e in
breve era venuto a morte. Si trovò santo: ma senza nem-
meno far conto di quella onorificenza straordinaria, che
lo faceva pari, e forse maggiore del suo maestro, si diede
a vagare per cieli e terre, onde rintracciarlo; e mano a
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